28/01/2021 - Le grandi aziende rinunciano all’olio. Niente più complotti e allarmismi: ora son tutti ambientalisti Di Simone Cosimelli
Fa bene, non fa male, non fa male se usato con moderazione, in effetti potrebbe dare problemi, è potenzialmente cancerogeno. Dal negazionismo al giustificazionismo, il dibattitto sull’olio di palma non si è mai spento negli ultimi anni, finché il 3 maggio scorso l’Efsa (l’autorità europea indipendente per la sicurezza alimentare) ha emesso un verdetto amaro. L’olio di palma e i grassi di palma contengono tre sostanze tossiche i cui contaminanti si formano nel processo di raffinazione ad alte temperature (200°C): estero glicidico degli acidi grassi (GE), 3-monocloropropandiolo (3-MCPD), 2-monocloropropandiolo (2-MCPD) e relativi esteri degli acidi grassi. Non solo: rispetto ad altri oli vegetali e margarine, ne presentano un quantitativo dalla 6 alle 10 volte superiore. Meglio ancora: per il GE non viene fissata nessuna soglia limite in quanto, in ogni caso, risulta cancerogeno e genotossico; mentre per il 3-MCPD la tollerabilità si blocca sui 0,8 microgrammi per chilo di peso corporeo, un livello facilmente superabile dalle fasce d’età più basse (fino a 18 anni). A metà maggio, c’è poi stata la diffusione dei Palma-Leaks: una serie di documenti con cui si dimostrava, carte alla mano, che università, enti di ricerca e pubbliche autorità avevano iniziato ad occuparsi già dal 2004 di studi tossicologici internazionali sul palma. E dunque, da almeno 12 anni, gli ambienti industriali non potevano non sapere delle proprietà nocive dell’olio. Tant’è che ai Palma-Leaks si è opposta una sola arma: l’oscuramento. Senza grandi risultati, però. Perché Balocco, Misura, Plasmon, Colussi, Esselunga, Carrefour, Unes e altre grandi aziende – in tutto 14 - hanno oramai cambiato strategie e ricette. Coop-Italia, addirittura, all’indomani del dossier Efsa comunicò l’immediata sostituzione di 120 prodotti. L’ultima a salire sul carro è stata Barilla; che dopo aver promosso e sponsorizzato campagne sull’olio di palma sostenibile, in pochi mesi ha scelto di piegarsi alle stesse idee prima osteggiate.
Così adesso 70 prodotti della Mulina Bianco rivendicano un «senza olio di palma» ben stampato sull’etichetta. Ed entro la fine dell’anno è stata annunciata una conversione quasi totale. Uno sprazzo improvviso di eco-sostenibilità? Un colpo basso a un sodalizio decennale? No, più che altro necessità di marketing. Non a caso Paolo Barilla, numero due dell’azienda di famiglia col fratello Guido, è stato confermato a giugno alla presidenza di Aidepi (Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta italiane), tra i più intransigenti difensori della salubrità e dell’utilità dell’olio, che nell’autunno 2015 avviò un incisiva campagna pro-palma per scuotere le coscienze di chi cominciava ad aver dubbi. Di fatto, però, gli italiani stanno boicottando, facendo la spesa, merendine, dolci o biscotti con olio di palma: l’Istat dà conto di una riduzione delle importazioni calcolate sul consumo personale da 23 g al giorno a 17,5 già nel passaggio dal 2014 al 2015. E cioè dall’entrata in vigore (dicembre 2014) del regolamento europeo per le etichette: da quel momento, infatti, si ha l’obbligo di indicare la presenza di palma, prima celata con un generico «oli vegetali». Da lì un crollo. Ed essere contro il palma, oggi, paga. Dario Dongo, avvocato e docente universitario, fondatore di Gift italae il co-fondatore del Fatto Alimentare - due portali web che con inchieste e denunce, tra cui la diffusione dei Palma-Leaks, hanno minato un intero sistema - non ha dubbi: «Il mercato di quest’olio è finito. Chi lo usa attualmente subisce la concorrenza di chi offre un prodotto senza rischi e per questo assistiamo a una svolta improvvisa, che in alcuni casi, come Barilla, è clamorosa. Di certo la parabola del palma ha dato la misura di quanto l’informazione sia pilotata, c’è stata una spaventosa mistificazione dei fatti». E aggiunge: «Quando lanciammo la prima petizione nel 2014 per chiedere la cessazione delle vendite (oltre 176mila firme) fummo accusati di voler cavalcare l’onda dell’allarmismo. Una schiera di nutrizionisti ed eminenti professori ci attaccava: ora dove sono?».
Secondo il Fatto Alimentare, negli ultimi 5 anni le importazioni in Italia di olio raffinato sono state tra le più alte d’Europa. Ma con la crisi delle vendite, a partire dal febbraio 2016, circa dieci milioni di euro sono stati spesi in spot e pagine pubblicitarie sui giornali per contrastare i detrattori: la più costosa campagna realizzata sull’alimentare negli ultimi 50 anni. Gli stanziamenti sarebbero arrivati da «Olio di palma sostenibile», una società che raggruppa buona parte delle industrie di prodotti alimentari trasformati. E dietro la nuova cordata, ci sarebbero gruppi di peso che gestiscono il budget pubblicitario del settore: circa 400 marchi con a capo Ferrero, Bauli, o multinazionali come Unilever e Nestlé. Barilla ne faceva parte, poi ha lasciato; rimanendo comunque sotto la Roundtable on sustainable palm oil (Rspo), un’associazione non-profit nata nel 2004 con lo scopo di promuovere una filiera garantita. L’attuale posizione di Barilla, però, finirà per sbilanciare il mercato. «Questa rivoluzione – continua Dongo – è frutto delle possibilità offerte dal web e dai flussi di notizie libere. Non avremmo mai potuto combattere ad armi pari 20 anni fa. Tv e grandi giornali non ci hanno mai dato spazio. Per noi, hanno risposto quelli che ho ribattezzato consumAttori: i cittadini hanno scelto autonomamente. Resta lo squallore con cui si è cercato e si cerca ancora di fare disinformazione».
Domanda: sostituirlo si può? E’ possibile, per le industrie, fare a meno di un ingrediente poco costoso, flessibile, dal sapore neutrale e che assicura una elevata conservabilità? Per Dongo si può, si deve: e il prima possibile. Anche dalle coltivazioni dell’olio, infatti, nasce il fenomeno del Land grabbing (la rapina delle terre), che negl’ultimi 10 anni – soprattutto in Sud-America, Africa, Sud-Est asiatico – ha contribuito alla destabilizzazione delle comunità agricole locali, con un grave impatto ambientale dovuto alla deforestazione e alle coltivazioni su vasta scala. 2/3 degli investimenti - secondo Oxfam - mirano all’esportazione delle merci. Gift e il F. Alimentare hanno segnalato circa 800 prodotti venduti nei supermercati italiani senza palma e, tra i primi sostituti, indicano il burro (che però, in termini di grassi saturi non differisce di molto), olio extravergine d’oliva, olio di girasole e olio a fibre. Biscotti, cracker, snack, dolci: tutto palma-free. Ce n’è pure per la Nutella, il fiore all’occhiello della Ferrero che usa il palma per tagliare i costi: 60 creme alternativa alla nocciola. E mentre quest’estate Altroconsumo (l’ass. consumatori italiani con oltre 370mila soci) ha denunciato l’eccessivo quantitativo di 3-MCPD (pericoloso per reni e testicoli) e GE (cancerogeno e genotossico) nel latte in formula per neonati, bisogna tornare a chiedersi: che mondo sarebbe senza nutella?
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